ISSN electrónico: 2172-9077

DOI: https://doi.org/10.14201/fjc2019191524

UN MONDO DENTRO IL MONDO. ALEXANDR SOKUROV E I MUSEI: ARCA RUSA E FRANCOFONIA

A World into the World. Alexander Sokurov and the Museums: Russian Ark and Francofonia

Roberto CHIESI

Responsable Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini. Fondazione Cineteca di Bologna. Italia.

E-mail: Roberto.Chiesi@cineteca.bologna.it

URL del código ORCID https://orcid.org/0000-0003-2945-5888

Fecha de recepción del artículo: 16/09/2019

Fecha de aceptación definitiva: 17/10/2019

sommario

Nei film di Aleksandr Sokurov Arca russa (Russkiy kovcheg, 2002) e Francofonia (id., 2015) i musei, l’Ermitage di San Pietroburgo e il Louvre di Parigi, diventano protagonisti. Lo spazio labirintico del museo, come luogo dove sono conservate le grandi opere d’arte del mondo, è un tempio della memoria e del passato. Ma questo patrimonio di conoscenza non è visto da Sokurov esclusivamente come tesoro di cultura ed erudizione artistica e storica, bensì anche come teatro dell’immaginario di un paese.

Parole chiave: Sokurov, cinema, museo, storia, arte.

Abstract

In Aleksandr Sokurov’s films, Russian Ark (Russkiy kovcheg, 2002) and Francofonia (id., 2015), the museums, the Hermitage in St. Petersburg and the Louvre in Paris, become protagonists. The mazy space of the museum, as a place where the great works of art in the world are preserved, is a temple of memory and past. But this wealth of knowledge is not seen by Sokurov exclusively as a treasure of artistic and historical culture and erudition, but also as a theater of the collective imagination of a country.

Key words: Sokurov, Cinema, Museum, History, Art.

1. Introduzione

Aleksandr Sokurov ha reso i musei protagonisti di due film, l’Ermitage di San Pietroburgo in Arca russa (Russkiy kovcheg, 2002) e il Louvre di Parigi in Francofonia (id., 2015), due film dalla forma opposta, come vedremo e quindi complementari. È ben nota l’intensità del legame estetico e poetico che avvince Sokurov alle arti plastiche e figurative, in misura infinitamente maggiore che al cinema ma i due film non si limitano ad essere un mero omaggio all’arte e agli artisti.

Arca russa e Francofonia sono entrambi messi in scena come rêverie, come due lunghe visioni, costellate e nutrite di apparizioni di fantasmi di personaggi realmente esistiti dove l’autore interroga la storia del suo paese e dell’Europa.

Lo spazio labirintico del museo, come luogo dove si raccoglie l’eccellenza delle opere d’arte del mondo e di un paese in particolare, è un tempio della memoria e del passato, quindi dell’identità culturale di una nazione che nelle sale di quel museo ha formato (dovrebbe avere formato) i propri cittadini. Ma questo patrimonio di conoscenza non è visto da Sokurov esclusivamente come tesoro di cultura ed erudizione artistica e storica, bensì anche come teatro dell’immaginario di un paese. Ossia le invenzioni, le visioni, la fantasia, le trasfigurazioni, le forme, i cromatismi, le storie che i dipinti e le sculture racchiudono in sé e il ventaglio di echi e riflessi storici e religiosi, culturali e fantastici cui rimandano, costituiscono i lineamenti anche dell’immaginario di una nazione.

Un immaginario che si identifica anche ad una spiritualità e ad una religiosità del passato, quindi perdute.

Sia Arca russa che Francofonia, infatti, sono film attraversati da un sentimento di silenziosa e sofferta malinconia: la malinconia di chi contempla il passato, di chi tenta di tramandare la memoria dell’arte e della storia ma è persuaso che l’essenza e l’identità della cultura che ci ha preceduto sia perduta per sempre e che si viva in un presente di ineluttabile e inesorabile degradazione.

Sokurov infatti non crede nel progresso e non crede nel futuro: i riferimenti occulti al presente della Russia e al suo avvenire sono ispirati ad un radicale pessimismo. Secondo il grande regista russo, noi posteri viviamo in un’epoca della perdita e della decadenza, una perdita e una decadenza che i grandi musei ci ricordano dolorosamente con ogni opera che espongono. È una visione che si potrà anche non condividere – soprattutto per l’ottica aristocratica che la ispira – ma è evidentemente sincera e soprattutto è all’origine di alcune delle più belle sequenze cinematografiche degli ultimi vent’anni. Attraverso il suo viaggio filmico ipnotico nell’Ermitage, in Arca russa, è la memoria del passato, di trecento anni di storia russa, che il regista russo vuole appassionatamente esaltare: «Tutti possono conoscere il futuro. È il passato che non si conosce!», farà dire ad uno dei due personaggi-guida del viaggio.

La fascinazione e l’ossessione del grande regista russo per i musei viene da lontano. Come ha evidenziato Denis Brotto in una bella monografia dedicata al suo cinema (Brotto, 2008, p. 165), già i film Robert. Una vita felice (Robert. Schastlivaya zhizn’, 1996) e Elegia del viaggio (Elegija dorogi, 2001) evocavano spazi museali e il primo era dedicato a Hubert Robert (1733-1808), un pittore francese la cui opera è in buona parte conservata all’Ermitage.

In Arca russa Sokurov ricorre ad un procedimento stilistico che ha già adottato in numerosi altri film anteriori: la soggettiva. La mdp si identifica allo sguardo di un io, uno spettatore, il cui volto rimane invisibile e che probabilmente corrisponde all’autore stesso (lo suggeriscono due indizi: il primo è la sua angoscia di non riuscire a vedere, all’inizio, quando l’inquadratura appare completamente buia e per qualche istante non si riesce a distinguere nulla, allusione ad alcuni problemi di vista di cui soffrì il regista in quel periodo; il secondo è l’allusione al segno zodiacale dei gemelli che corrisponde a quello di Sokurov). Con questo procedimento l’autore conduce lo spettatore a identificarsi con lo sguardo della mdp, ossia con il proprio sguardo mentre sta vivendo la visione all’interno degli spazi del museo, in un tempo di durata che, con una audace performance realizzativa, coincide con quello delle riprese perché Arca russa, dopo mesi di preparazione, è stato girato il 23 dicembre 2001, in un solo giorno e nei novantacinque minuti di durata del film, nella continuità di un unico piano-sequenza con la SteadyCam portata a mano da Tilman Büttner, un operatore di magistrale abilità nell’uso di questa macchina da presa. I movimenti della macchina da presa sono perlopiù travelling avanti, indietro e laterali che creano un effetto di vertiginosa identificazione al tempo stesso fisica e mentale con l’errare dello sguardo dell’io dentro i saloni, le gallerie e i corridoi dell’Ermitage.

Come ha dichiarato lo stesso Sokurov, «Volevo che egli [lo spettatore] vivesse dentro lo spazio del film e il tempo cinematografico. Certamente inquadrando l’immagine indichiamo allo spettatore che cosa guardare. Ma è lui all’interno del quadro a decidere su che cosa porre la propria attenzione, su quale dettaglio» (Brotto, 2008, p. 165).

2. Il passato che non si conosce

Condurre lo spettatore a vivere dentro lo spazio e il tempo del film, significa condurlo dentro un flusso che è anzitutto mentale e che segue i movimenti della memoria. Come in un flusso mentale, che è caratterizzato da divagazioni e insorgenze improvvise e imprevedibili della memoria, Arca russa riproduce il carattere itinerante, sinuoso, e al tempo stesso soggetto alle intermittenze, alle intercettazioni provocate da apparizioni improvvise di personaggi che sembrano richiamati dalle profondità dei ricordi della storia del paese come di quella individuale. Non volendo e non potendo mostrare il volto dell’io per mantenere la dimensione soggettiva del film, Sokurov lo fa dialogare con un interlocutore che diviene una sorta di guida, di compagno di viaggio, di Virgilio, dentro i meandri del museo (e del Palazzo d’Inverno). Ma il regista non sceglie un personaggio appartenente alla storia russa, bensì uno straniero, un viaggiatore venuto da un altro paese, dalla Francia, e da un altro tempo, che quasi sempre si trova in disaccordo con le idee dell’io e gli contrappone una visione della storia e della realtà affatto diversa. Questo provoca una lieve tensione – perché appunto le due voci dialoganti durante il viaggio all’interno dell’Ermitage non sono in sintonia – che aggiunge un elemento ritmico originale al film. L’identità stessa dello straniero non è definita: sembra di poterlo identificare con il marchese Adolphe de Custine (1790-1857), il cui nome viene pronunciato da un personaggio mentre la folla esce dall’Ermitage e che gli corrisponde in alcuni tratti (anch’egli partecipò al Congresso di Vienna ed espresse opinioni molto severe sulla Russia) ma, come ha ricordato Mario Marino (2012, p. 120), il regista ha negato tale attribuzione, forse per lasciare un margine di incertezza fra la figura da lui inventata e de Custine storico, o forse anche per giocare con lo spettatore.

All’inizio lo straniero afferma, per esempio, «adoro il XVIII secolo, un’epoca di uomini geniali e di raffinate maniere» e l’io lo contraddice. Quindi aggiunge una critica all «indolenza» dei russi, che preferiscono le opere degli artisti stranieri: «le vostre autorità non hanno fiducia nei vostri artisti. I russi dimostrano di avere un vero talento nel copiare. Ma perché, mi domando? Perché voi non avete ideé che siano vostre? Le vostre autorità non vogliono che abbiate delle idee vostre».

Poi ricorda che esisteva una galleria con dipinti italiani ma «non dei migliori», e l’io narrante, per contraddirlo, sottolinea che gli zar sono sempre stati russofili. Quando si entra nella «piccola galleria italiana», ecco apparire una sala dalle dominanti rosse, con i candelabri Voronichin e, per l’unica volta nel film, vediamo alcuni visitatori in abiti contemporanei aggirarsi nella sala. Ma, filmati a distanza e in silenzio, diventano paradossalmente loro i fantasmi mentre lo straniero, pur essendo evidentemente un uomo del passato, è vivo e concreto. Egli esprime la sua condanna dell’impero: «Non riesco a entusiasmarmi per l’Impero, lo trovo sciocco come stile», quindi incrocia due uomini seduti e chiede con insistenza a quale ceto sociale appartengano. Si tratta di Oleg Konstantinovic, un medico, e Lev Mikhailovic, un attore, entrambi uomini di oggi. A questo punto, per insinuare un elemento «fisico» nella scena, che le imprima un carattere percettivo più intenso, Sokurov ha la felice idea di assegnare allo straniero un’appassionata esternazione sull’odore di formalina che sente, un odore che ama. Il visitatore e i due uomini del presente si soffermano a guardare La nascita di Giovanni Battista del Tintoretto, acquistato dall’imperatrice Caterina II, artefice dello sviluppo dell’Ermitage, nel 1772. In particolare guardano il dettaglio della gallina e del gatto dipinti nella porzione in basso del dipinto: la gallina rappresenta l’avidità e il gatto il cinismo, la crudeltà, «entrambi si acquietano alla nascita del Battista». È un dettaglio che rimanda ad un sistema di segni e di simboli che appartengono ad un’altra cultura, molto remota da quella di oggi. Sokurov suggerisce così la necessità di addentrarsi nei codici simbolici e allusivi del tempo per comprendere i segreti, i doppi fondi che si celano in un dipinto.

Quando lo straniero si scandalizza scoprendo che la Cleopatra di Massimo Stanzione, è collocato vicino a La circoncisione di Cristo di Ludovico Cardi, un artista devoto, e ad altri quadri di argomento sacro, affermando «come cattolico sono colpito da tutto ciò», ecco che si introduce un altro punto di vista anacronistico, che denota una sensibilità non più consona al nostro tempo.

Non a caso la fredda cordialità esistente fino a quel momento fra lo straniero e i due intellettuali contemporanei si guasta per disaccordi e incomprensioni e l’uomo del passato si allontana da loro.

Nella galleria in penombra dove sono esposte le sculture di Canova, in penombra, lo straniero si entusiasma e la macchina da presa sembra accarezzare le forme perfette delle Tre grazie. Qui si può ravvisare una probabile identificazione fra l’io e lo Straniero (con il quale appunto esiste una dialettica di contrapposizione ma anche di specularità). Pochi istanti dopo, l’io e lo straniero arrivano nel mezzo di un ricevimento e la voce off dell’autore dice: «È un sogno», sottolineando il carattere onirico del viaggio ma viene subito smentito dal suo interlocutore che invece controbatte: «Non lo so, non lo so. Non so come vi sentiate voi, ma io sono sveglio». Come in un sogno, però, l’uomo incontra una figura rarefatta, una donna cieca che accarezza una statua e le chiede di accompagnarlo nella sala dei maestri fiamminghi.

Qui ammira La vergine delle pernici di Van Dyck, anch’esso acquistato da Caterina, dove il girasole rappresenta la pietà e le pernici la frivolezza. Nasce poi un dialogo surreale su Il banchetto in casa di Simone il fariseo di Rubens, perché lo straniero sostiene che il dipinto non sia più nella sala – dove invece è ben visibile - mentre la donna invece insiste nel dire che sia presente Anche in questa sequenza si insinua l’elemento olfattivo quando lo straniero si sofferma a odorare «un profumo meraviglioso», quello della pittura ad olio che emana dal quadro. Due giovani della marina militare li avvicinano per precisare che lo zar aveva fatto collocare i quadri più in alto e aggiungono che lo zar visitava la collezione tutte le mattine e la salvò quando ci fu l’incendio del 1837. In quel momento sopraggiungo alcuni commessi dell’Ermitage che invitano lo straniero ad andarsene perché il museo sta chiudendo.

3. Nella dimensione onirica

Se l’apparizione dei marinai introduce la presenza dell’esercito che, in una sequenza successiva assumerà una fisionomia più inquietante e minacciosa, l’intervento del personale di sorveglianza, invece, è una tipica situazione onirica che segna l’intervento di un ostacolo, di una contrarietà, nell’azione. In effetti una semplice interruzione perché lo straniero e l’io continuano a muoversi nel museo ma questa scena ha l’effetto, con l’apparente realismo di quanto accade, di sottolineare, paradossalmente, la dimensione fluttuante fra sogno e realtà in cui il film è immerso. In modo analogo agisce anche la gag che contrappone lo straniero ad un giovane commesso del museo, che gonfia le guance e si muove al rallentatore, suscitando la reazione di una sorta di pernacchia da parte del visitatore. Onirica è anche l’inquadratura in dettaglio di un uomo che si infila il guanto in una mano mentre lunare e significativa è la sequenza in cui lo straniero chiede ad un giovane visitatore se sia cattolico perché lo ha notato fissare con intensità i quadri che ritraggono i padri fondatori della chiesa, in particolare gli apostoli Pietro e Paolo di El Greco. «Ma come fate a sapere che uomini sono, se non avete letto le Sacre Scritture?» In questa sequenza ritorna probabilmente l’identificazione fra lo straniero e l’autore, che stigmatizza l’ignoranza dei testi sacri e degli episodi che riportano, essenziali per comprendere la tradizione artistica che dalla religione si ispirava.

Si entra nella sala dove sono esposte le opere di Rembrandt e lo straniero ammira Abramo e i tre angeli di Rembrandt, in particolare la figura dell’angelo, che è ritratto di spalle. Poi, durante la parentesi ironica e lieve, «danzata», dell’incontro con la danzatrice Alla Osipenko, vediamo la Danae di Rembrandt (cui la danzatrice è legata da un segreto che ci rimane tale), quindi il Sacrificio di Isacco, sempre di Rembrandt e la macchina da presa contempla la magica luce dei due dipinti.

È a questo punto, in una pausa del viaggio, che viene evocata, ma non in modo esplicito, la Rivoluzione d’Ottobre e l’avvento del comunismo in Russia. La condanna espressa dallo straniero sulla rivoluzione francese si riflette nelle parole sussurrate dall’io che ricorda come la dittatura bolscevica sia durata decenni e sia stata «una storia molto triste». Un’amara ironia sembra di percepire nella risposta che la voce dà allo straniero quando gli chiede quale sistema abbiano attualmente, «una repubblica?» «Non saprei dire».

Dietro quel «non saprei» si dissimula il pessimismo di Sokurov che, negli ultimi anni, ha assunto pubblicamente posizioni molto critiche contro il regime di Putin e a causa di ciò, è stato fatto oggetto di ritorsioni e di una messa ai margini.

Non a caso proprio nel momento in cui si parla dell’attuale governo della Russia irrompono due militari che, minacciosamente, mandano via lo straniero. L’inquadratura è immersa in cromatismi freddi e ha l’atmosfera inquietante di un incubo. «Chissà perché a un tratto comincio ad avere paura. Non mi piacciono i militari». Lo straniero e l’io sembrano fondersi in un unico personaggio e si nascondono in un vano buio. L’incubo non è terminato, anzi si inoltra in una zona ancora più cupa e angosciosa quando lo straniero apre una porta nonostante la voce dell’io lo implori di non farlo.

Al di là della porta si apre un magazzino freddo e sinistro, sommerso nella penombra e ingombro di oggetti, dove incontrano un uomo inginocchiato che li avverte: «Non c’è nessuno qui, ci sono soltanto cadaveri e bare». Gli mostra la bara che ha costruito egli stesso con le proprie mani e il suo atteggiamento diviene minaccioso. La voce dell’io spiegherà che tutti quei morti sono stati il prezzo da pagare per la libertà nella guerra contro la Germania nazista, guerra che è costata un milione di morti: «In Russia si dice che la libertà non ha prezzo». Il motivo funebre che qui diviene affiora allo scoperto, percorre sotterraneamente Arca russa. Sokurov ha dichiarato:

Finché si attraversa il Palazzo dell’Ermitage, tutti gli elementi geometrici lineari costituiscono la metafora delle candele poste a memoria dei morti, come avviene in chiesa nella tradizione ortodossa. Tutte quelle forme lunghe e verticali sono un richiamo alle candele ortodosse. E verso la fine del film, quando si apre il sipario e si vedono le centinaia di persone nella sala da ballo, il concetto di fine, dato in precedenza dalla verticalità, diviene ora anche orizzontale espandendosi nello spazio (Brotto, 2008, p. 166).

4. La divagazione nella storia

Dalla storia tragica del ‘900, si passa, con una digressione non casuale, alla storia, gloriosa secondo l’autore, del ‘700, l’epoca di Caterina, che appare mentre riceve un gruppo di bambini e soprattutto decide di uscire all’aperto, da una vetrata, nonostante la neve gelida all’esterno. La regina viene filmata a distanza, come se la macchina da presa non osasse avvicinarsi alla sua persona, mentre si inoltra nel giardino seguita dal maggiordomo, e quindi compie un gesto anticonformista e incurante del clima, del disagio. Con questa breve apparizione e l’azione insolita, apparentemente banale che mostra, Sokurov esprime la sua profonda ammirazione non soltanto per Caterina la grande ma per gli zar. È una visione senz’altro discutibile e che infatti è stata discussa ma ci sembra che l’aspetto più rilevante sia la forza poetica che il regista riesce ad imprimere alla propria visione nostalgica e «aristocratica» sotto il segno della malinconia dolorosa di chi è convinto di vivere in un’epoca di declino. L’immagine della potente imperatrice che decide di uscire fuori dalla reggia per misurarsi con la realtà, nella sua semplicità, suggerisce più di quanto mostri.

L’evocazione dell’imperatrice introduce ad alcune scene ambientate nel Palazzo d’inverno dei Romanov, dove la solennità e lo sfarzo intendono esaltare soprattutto la raffinatezza e il culto della bellezza e dell’arte che animava alcuni esponenti della dinastia. Quando lo straniero si inserisce da intruso nella sala più grande, scopriamo che sta assistendo al momento storico in cui lo Zar Nicola I riceve le scuse da parte dell’ambasciatore di Persia dopo l’assassinio a Teheran nel 1829 dell’ambasciatore russo, il poeta Griboiedov. Questa cerimonia diviene emblematica di un senso del rispetto e della dignità di cui evidentemente Sokurov vuole sottolineare la mancanza nel comportamento degli uomini di stato odierni.

Nonostante venga cacciato, lo straniero dichiara di avere sempre avuto un debole per il lusso e lo sfarzo dei Romanov e loda l’ingegno dell’architetto Stasov mentre, nella sequenza successiva, si incanta davanti alle porcellane di Sèvres, che vede come opere d’arte, dove appare incomparabile l’abbinamento del verde e dell’oro zecchino del «servizio dei cammei» dello zar.

Nella sala del trono, alcuni uomini stanno controllando gli arredi imperiali nella sala in penombra e dicono che nessun insetto può rovinarlo: sono l’attuale direttore dell’Ermitage, Mikhail Piotrovskij con due direttori del passato, il padre Boris Piotrovskij, direttore fino al 1990, e Josif Orbeli, direttore del museo durante la Seconda guerra mondiale. Da alcune delle loro parole trapela il pensiero di Sokurov sulla Russia del presente: «Le autorità vogliono le ghiande, non la quercia. Di cosa si nutre l’albero della cultura non lo sanno né lo vogliono sapere. Ma se l’albero cade, allora finisce anche il loro potere. E quello che non capiscono è che dopo non ci sarà più niente».

Nell’ultima parte del film, il regista mette in scena la famiglia dei Romanov poco prima del crollo della Rivoluzione d’Ottobre ma sceglie un’angolazione familiare, quotidiana e dimessa: le ragazzine amiche e sorelle della figlia dello zar Anastasia che corrono con lei in un lungo corridoio fino a raggiungere la madre, Aleksandra Fëdorovna che sta camminando con una suora e le dice di avere un brutto presentimento, poi si allarma per il rumore degli spari provenienti da lontano. Un presagio della morte imminente. Segue l’immagine della famiglia Romanov a tavola, in una tonalità pastello ingannevolmente rassicurante e serena, quindi la grandiosa scena del ballo nel salone Nikolaevsky, fra alte colonne di marmo. Il momento del trionfo di quel mondo raffinato racchiude anche l’immagine della sua fine imminente. Al termine di questo solenne rituale, mentre la gente sciama via, lo straniero sussurra: «È tutto finito», addio Europa». La profonda malinconia, il senso di crepuscolo che avvolge questa scena ricorda quella del lungo ballo che precede la conclusione de Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti e lo stesso Sokurov non ha smentito l’accostamento.

La macchina da presa, sempre in soggettiva dello sguardo dell’autore, raggiunge un’uscita laterale che si affaccia su un fiume, el cui immagine sembra in negativo. Sono le acque del Neva, battute dal vento e ammantate anche dalla nebbia: «Quella è la sola aggiunta. Quando stavamo uscendo dal Museo verso il fiume Neva, alla fine del film, ho percepito una sensazione legata all’immagine che non mi convinceva. Non mi trovava in sintonia. Così abbiamo filmato l’acqua del golfo a – 26°, in fase di sublimazione. Abbiamo aggiunto questa immagine ed ecco che l’arca si ritrova immersa nel grande mare» (Brotto, 2008, p. 166).

L’io sussurra: «Dovremo navigare per sempre e vivere per sempre». Ma non ha più interlocutori perché lo straniero è scomparso ed è evidente che l’inquadratura di quelle acque nere che circondano il Palazzo d’Inverno e l’Ermitage, evochi un senso di dissoluzione luttuosa, come ha confermato lo stesso Sokurov, definendolo un «terrificante mare nero che richiama l’inferno». (Brotto, 2008, p. 166)

5. Saggio storico e fantasmagoria

Se Arca russa è calato in un unico flusso dove, senza soluzione di continuità, strati diversi del passato si alternano, Francofonia invece è un film di frammenti eterogenei, un film estremamente composito – scene di ricostruzione storica, riprese dal vero, materiale d’archivio originale e materiale d’archivio manipolato – dove tante schegge di diversa provenienza sono state riunite in un’unica forma. Anche in questo caso, il museo, il Louvre, è uno dei protagonisti del film:

Un museo è un mondo dentro il mondo. Girando film nei musei e sui musei riusciamo a coinvolgere persone diverse, di diverse nazionalità, in un incontro diretto con le opere d’arte originali. Sono stato entusiasta dell’opportunità di girare il film al Louvre. L’ho considerato un ritorno al mio sogno di fare un ciclo di film d’arte da girare all’Ermitage, al Louvre, al Prado, al British. Era meraviglioso il fatto che la direzione del Louvre avesse aderito con entusiasmo alla nostra proposta. E poi è stato magnifico poter condividere questo lavoro con il mio collega eccezionale ed illustre, il direttore della fotografia Bruno Delbonnel, un maestro di spicco, un grande artista. La combinazione di queste circostanze è già un miracolo1.

In questo caso l’autore mostra se stesso, nell’incipit e nel corso del film, come narratore onnisciente di spalle, nella penombra del proprio studio-laboratorio, fra i libri, i quadri e le carte. È lui che introduce la narrazione e i personaggi ed è alla sua voce che obbediscono le dinamiche di un racconto collocato in una cattiva luce, perché il regista ammette subito la propria insoddisfazione verso il film che stiamo vedendo.

Il primo racconto lo vediamo nelle immagini intermittenti dello schermo del computer domestico dell’autore, collegato via Skype ad un personaggio immaginario, Dirk, capitano di una grande nave che sta trasportando beni artistici inestimabili. La nave è finita in una tempesta e potrebbe inabissarsi da un momento all’altro in un naufragio.

La tempesta è visualizzata nello schermo di un pc ed è proprio questa percezione mediata dai mezzi odierni a renderla vivida e credibile, anche se non lo è. Sokurov adotta gli strumenti del presente per rendere vivida e tangibile la percezione di una scena iscrivendola all’interno della nostra esperienza quotidiana,

La vicenda immaginaria di una nave carica di opere d’arte che rischia di inabissarsi riecheggia un episodio effettivamente avvenuto nel passato e citato nel film, quando colò a picco un’imbarcazione del XIX secolo, partita da Bassora in direzione di Marsiglia per condurre al museo francese le sculture dei grandi leoni siriani. Sokurov ha voluto ricordare questo episodio per alludere alle distruzioni vandaliche delle opere d’arte perpetrate dall’IS.

«Le forze della storia somigliano alle forze dell’oceano», sussurra la voce dell’autore: l’oceano è un’immagine di indistinto minaccioso che possiamo accostare a quella delle acque del Neva che conclude Arca russa, un’immagine di morte e dissoluzione.

Il senso di minaccia aleggia sull’intero film. L’immagine delle opere d’arte impacchettate sulla prua ed esposte pericolosamente alle ondate diviene il prologo ideale a un viaggio nel tempio dell’arte e della conservazione dei beni artistici. È ancora, dopo quello compiuto nell’Hermitage di Arca russa, un viaggio nella storia e nella memoria racchiuse negli spazi di uno dei più grandi musei del mondo, il Louvre. Ma, appunto, non è un viaggio pacificato: è compromesso dall’angoscia che deriva all’autore dalla vulnerabilità delle opere d’arte che, come gli abitanti di un paese conquistato, sono esposte agli abusi dei vincitori e da un’angoscia ulteriore: che la distruzione, la cancellazione del passato sia oggi un fenomeno tacitamente ammesso - almeno in quanto accolto da una sostanziale indifferenza - dalle autorità che governano un mondo, secondo Sokurov, sempre più abbandonato all’oblio.

Sokurov si domanda: «Come il Louvre ha potuto sopravvivere al corso della storia? Quale è stato il prezzo di questa sopravvivenza?», ossia come abbia potuto sopravvivere al periodo di maggior pericolo per la propria storia quando la Francia venne invasa dai nazisti.

Il cineasta disseppellisce una storia dimenticata e che non è stata ancora approfondita in modo esaustivo: la dialettica fra il vincitore, il conte tedesco Franz-Wolff Metternich, ufficiale responsabile della Kunstschutz (commissione tedesca per la protezione delle opere d’arte nella Francia occupata) e il vinto, il direttore del Louvre, Jacques Jaujard.

Dietro la Kunstschutz si nascondeva la vasta attività di saccheggio organizzato dai nazisti nell’Europa occupata ed è appunto la reale natura criminale di tale istituzione a sollevare molti interrogativi su quali dinamiche avrebbero evitato al grande museo parigino di subìre la stessa sorte dell’Ermitage. Sokurov ricorda anche il massacro di tre milioni di russi durante i primi mesi dell’assedio di Leningrado e ritiene che il maresciallo Pétain sia stato l’artefice di un compromesso tutto sommato accettabile perché ha risparmiato molte vittime. Ma trascura di ricordare le deportazioni degli ebrei compiute con la piena complicità, anche ideologica, da parte del regime di Vichy, correo dello sterminio.

Le segrete stanze in cui dialogarono Metternich e Jaujard diventano quindi il teatro di un enigma non soltanto storico ma emblematico, intorno al quale Sokurov ha creato (soprattutto in postproduzione) un saggio storico, nato dall’analisi personale degli archivi di Metternich (mentre quelli di Jaujard risultano tuttora irreperibili), che è al tempo stesso una fantasmagoria poetica. Il grande regista russo ricorre anche alla manipolazione del materiale di repertorio, come quando ha impresso un «doppiaggio» umoristico alla bocca di Hitler in una sequenza muta a Parigi. Anche in Francofonia, come in Arca russa, vengono messi in scena personaggi storici ma l’intento stavolta è caricaturale: si veda l’apparizione dei «fantasmi» di Napoleone, ridotto ad un burattino megalomane e della Marianne allegorica, che percorre le sale del museo come un’isterica, dato che Sokurov odia la Rivoluzione francese, ritenendola arbitrariamente madre delle stragi di stato a venire, in primis quelle dello stalinismo:

Quello di Marianna è una sorta di mantra della filosofia europea ma anche slogan di una rivoluzione costata sangue e vite umane. Napoleone dice di essere il Louvre perché è stato il primo a concepire come funzione dello stato la salvaguardia e conservazione dell’arte. Ma ha sacrificato migliaia di soldati per portare al Louvre le opere. Con un disprezzo per le vite umane che i leader hanno anche oggi (Finos, 2015).

Con dolorosa ironia, il regista ricorda che il Novecento si era aperto con due lutti carichi di cupi presagi – le morti di Tolstoj e Cechov, i due maestri che, ritornando nel passato, cerca di svegliare dal loro sonno.

Adotta gli stessi stilemi delle sue Elegie – la voce over, le sequenze dalla definizione e dai formati diversi, l’uso della steadycam, le sovrimpressioni, la manipolazione dei filmati d’archivio, le discontinuità e i cortocircuiti temporali, il respiro divagatorio – per sfruttare la natura onirica e soggettiva del cinema e quindi coinvolgere lo spettatore in un gioco fantasmagorico dove il Louvre diviene il sacrario stesso dell’identità culturale europea durante la tempesta più tragica della sua storia.

Le due figure di Metternich e Jaujard diventano emblematiche di un amore per l’arte e la cultura che travalica le contingenze storiche: se il francese ha giocato con suprema abilità le carte della diplomazia, ha avuto la fortuna di avere un interlocutore la cui sensibilità inaspettatamente ricorda quella di von Ebrennac, l’ufficiale tedesco di Il silenzio del mare (il romanzo di Vercors a cui si è ispirato Jean-Pierre Melville per il suo primo film), un conoscitore ed estimatore d’arte pronto a rischiare di persona pur di salvare uno dei musei più importanti del mondo.

Questi due uomini dovrebbero essere nemici e invece divengono le due incarnazioni di un umanesimo che egli contempla con malinconia e rimpianto, persuaso che quei valori, quella concezione della cultura oggi siano estinti. Lo dimostrerebbe, secondo lui, per esempio, il saccheggio del museo di Bagdad cui l’esercito statunitense e l’ONU hanno assistito senza intervenire.

Tredici anni dopo Arca russa, la malinconia di Sokurov non si è attenuata, al contrario: interpreta come un fatto emblematico che Jaujard, nonostante i suoi meriti, abbia dovuto apprendere dai giornali che era stato dimesso dalle sue funzioni. Da quel momento uscì di scena senza lasciare tracce e, appunto, neanche un archivio, né rimangono documenti significativi del suo lavoro negli archivi del Louvre, forse anche per oscure ragioni di censura interna al museo. Nell’oblio e nella dimenticanza in cui viene abbandonato un intellettuale che si è battuto per la salvaguardia della memoria, Sokurov ravvisa un ulteriore, drammatico indizio della decadenza dei nostri tempi. Rimane, come unico baluardo, l’attaccamento alla tradizione culturale dell’Europa:

L’unica garanzia della nostra esistenza è l’esistenza del Vecchio Mondo, ovvero l’Europa. Per la Russia è questione di vita o di morte. Siamo legati in modo viscerale dal punto di vista etico, morale e spirituale all’Europa e non possiamo vivere senza di essa.

Voi italiani potreste tranquillamente fare a meno della Russia, per noi sarebbe impensabile il contrario. Viviamo in una parte della terra troppo fredda e abbiamo bisogno del calore della vostra arte e della vostra umanità. La corona europea è ancora piena di tesori, mentre io sono deluso dall’impoverimento del mio Paese (Polidoro, 2015).

6. Bibliografía

Denis Brotto (2009), Osservare l’incanto. Il cinema e l’arte di Aleksandr Sokurov, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma.

Arianna Finos (2015), «Alexander Sokurov, film sul Louvre: «L’arte salverà l’Europa»», La Repubblica, 16 dicembre.

Mario Marino (2012), «Arca russa: un atto di visione dialogica sull’umana salvezza», in I corpi del potere. Il cinema di Aleksandr Sokurov, a cura di Mario Pezzella e Antonio Tricomi, Jaca Book, Milano.

Federica Polidoro (2015), «Sokurov ci racconta Francofonia. Terrorismo, arte e fantasmi», ArtTribune, 14 dicembre.

Francofonia. Un film di Alexandr Sokurov. Press Book. https://pad.mymovies.it/filmclub/2014/12/140/mymovies.pdf

1 . Dichiarazioni di Aleksandr Sokurov, dal pressbook di Francofonia.